Come diventare una donna leader? Ce lo racconta Daniela Bonetti - Infoestetica Magazine

Come diventare una donna leader? Ce lo racconta Daniela Bonetti

Come diventare una donna leader? Ce lo racconta Daniela Bonetti

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Le qualità più preziose di ogni donna, la dolcezza, l’empatia, l’attenzione ai dettagli, possono diventare catene invisibili invece che vantaggi competitivi. Così recita l’incipit della pagina di presentazione di Daniela Bonetti e del suo percorso di mentoring "Donna Leader". L’abbiamo incontrata perché, per noi, il suo lavoro è fondamentale.

Tutto parte da un assunto di base che poco ha a che fare con il patriarcato né con la narrazione più diffusa dell’universo femminile. Ogni donna ha un potenziale enorme che deve uscire allo scoperto e, per farlo, deve fare leva su qualità e talenti. Grandi poteri “al femminile” da cui, come insegna Spider Man, derivano grandi responsabilità, ed ecco la nota dolente. La maggior parte delle donne “inciampa” nell’incapacità di delegare, nella mania del perfezionismo, nella paura del giudizio e in tanti altri ostacoli auto-indotti che limitano il suo potenziale.

Quindi per essere leader bisogna rinunciare alla dolcezza e puntare alla forza come un uomo? Certo che no! La donna leader esalta il suo potere al femminile e concorre con le proprie armi nella competizione, ma questo ce lo racconta direttamente Daniela Bonetti.

Com’è iniziata la tua carriera? Hai scelto di fare questo lavoro oppure è arrivato da sé?

Era il 2001 quando partecipai alla mia prima mezza giornata di formazione con Roberto Re. In quell’occasione arrivai a capire una serie di cose su me stessa, ma allo stesso tempo in me era nato un grande amore verso quel tipo di contenuto. Per la prima volta mi ero trovata a ragionare sulla crescita personale, sul concetto di leadership, e quello mi ha permesso di dire "io voglio assolutamente capire cosa fa lui perché a me piacerebbe fare il suo lavoro"

E ti hanno presa subito a lavorare?

Per niente. Prima sono andata a chiedere informazioni a Roberto, facendogli i complimenti, e mi ha rimbalzato al suo collaboratore che mi ha dato il suo numero di telefono e una mail a cui ho mandato il mio curriculum. Nessuna risposta. Dopo aver visto sul sito un pop-up che diceva "Stiamo cercando commerciali part-time, lasciati tentare, vieni con noi" ho scritto un altro messaggio ma non mi hanno risposto, quindi dopo un paio di mesi sono tornata alla carica e la mia insistenza è stata finalmente premiata con un colloquio. Era il 2003.

C’è stato un momento preciso in cui hai pensato “è la strada giusta per me”?

Subito, dal punto di vista emozionale. Neanche avrei dovuto esserci a quell’evento, ma sentii una sorta di morsa dentro la pancia che mi convinse ad andare, come una chiamata. E quando sono arrivata là e ho visto Roberto Re, ho sentito delle vibrazioni che mi hanno detto proprio "Io voglio fare quello".

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E com’è stato lavorare lì, all’inizio?

Faticoso. Da una parte dovevo lavorare per mantenermi, e ok, ma dall’altra facevo formazione soprattutto su di me. E io e ho avuto diversi momenti di "ma, sarà la cosa giusta?". Però erano momenti sporadici, e in un nano secondo mi rifocalizzavo sul fatto che quella roba lì mi piaceva, che l'ambiente mi piaceva, che mi piaceva lavorare con quelle persone e che quello stava facendo bene a me, per quanto faticoso e doloroso potesse essere era comunque la strada giusta per uscirne vincenti.

Tu, oggi, insegni alle donne a potenziare se stesse, a puntare sui propri punti di forza. Però quando hai iniziato tu, in quel momento, Roberto parlava ad una platea eterogenea. Da donna, che tipo di difficoltà hai avuto o comunque cosa ti sarebbe piaciuto che ci fosse in più in quello che ti ha trasmesso lui?

Quello che mi ha fatto concentrare e focalizzare sulle donne è partito proprio dalla mia esperienza diretta. Quando lavoravo con Francesca Romano (co-autrice di Leadership al femminile, n.d.) a Torino, mi resi conto che entrambe, ambiziose e con una forte leadership, la esercitavamo “al maschile”. Per farci spazio nella vita e nella carriera, stavamo soffocando la nostra femminilità. E questo abbiamo iniziato a notarlo in tutte le donne con cui avevamo a che fare, le donne che venivano da noi a frequentare i corsi, avevano più o meno gli stessi problemi, soprattutto quelle che volevano fare business. Da quel momento in poi abbiamo capito di dover lavorare su noi stesse, di tirare fuori la nostra femminilità puntando su dolcezza e sensibilità.


Quindi si può dire che, in un certo senso, adottare dei comportamenti più “maschili”, in qualche modo costituiva un limite?

È un limite perché ci siamo accorte che le persone non eseguono gli ordini, non cercano un “capo” ma un leader. Hanno bisogno di essere accompagnate, affiancate, capite nel loro bisogno, essere ascoltate. Per fare questo serve la sensibilità, riuscire a scavare oltre la superficie. Le donne sono particolarmente propense verso questo genere di analisi. La loro predisposizione innata ad accudire, proteggere, educare è un punto di forza notevole.

Torniamo alla parola “leader”, che trasmette l’idea della forza. Un leader può avere anche delle debolezze?

La debolezza è un punto da cui partire per migliorarsi, e la debolezza è anche vulnerabilità. Quindi, ci si può sentire deboli in qualcosa, l’importante è esserne consapevoli. Gli esseri umani per loro natura hanno delle debolezze e la nostra imperfezione è ciò che ci rende affascinanti. Non c'è niente di male nel riconoscerselo o nel parlarne perché, quando lo fai, anche in un contesto di leadership, le persone ti ammirano. Ti ammirano perché si sentono molto più vicine a te, perché si riconoscono in te. Se, invece, fai finta di essere forte, arrivata, indistruttibile, stai mentendo a te stessa e agli altri, e si vede.

Da bambina com’eri e come sognavi di diventare?

In realtà ero molto timida. Durante l’adolescenza, dai 12 ai 17 anni, ho portato un busto correttivo che ha condizionato il mio modo di relazionarmi con gli altri, ed ero già timida di mio. Da piccola giocavo spesso a fare la maestra perché immaginavo che un giorno sarei stata un’insegnante.

Be’, non sei molto lontana …

In un certo senso sì, ma a me piaceva fare soprattutto la maestra severa, quella cattiva che dà le punizioni (ride, n.d.) Lì iniziava ad uscire fuori il mio carattere “strong” nel suo lato più “maschile”, ma la timidezza è stata il punto debole su cui ho dovuto lavorare di più. Quando, da adolescente, servivo ai tavoli al bar dei miei genitori, il dover prendere le ordinazioni mi faceva quasi venire il magone, perché era una forzatura per me, mi vergognavo ad andare ai tavoli a chiedere cosa volessero da bere, da mangiare. È stata la prima palestra che mi ha portata a vincere la timidezza.

E oggi, cos’hai conservato della Daniela del passato?

Il mio punto debole è diventato la strategia con cui ho costruito la mia forza. Di quella timidezza è rimasta la sensibilità, che mi aiuta tantissimo nel mio ruolo.

 

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