Anna Elena Pepe. Miss Agata e il racconto del dramma in chiave comedy - Infoestetica Magazine

Anna Elena Pepe. Miss Agata e il racconto del dramma in chiave comedy

Anna Elena Pepe. Miss Agata e il racconto del dramma in chiave comedy

IN BREVE

  • Anna Elena Pepe ha portato a Venezia il suo "Miss Agata", cortometraggio che ha già collezionato molti premi internazionali
  • Il racconto della sindrome post-traumatica protagonista del film, pone l'accento su un tema ancora poco trattato
  • Bellezza, cinema e sguardo. Il corpo femminile secondo Maria Elena Pepe

anna-elena-pepe
Attrice, sceneggiatrice, regista. Anna Elena Pepe è uno dei volti del nuovo cinema italiano, che alla mostra del cinema di Venezia - al Premio Starlight International Cinema Award - ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura con il corto "Miss Agata". Il film - che racconta la storia di Agata una trentenne apparentemente maldestra e buffa che nasconde un passato di violenze domestiche - è stato scritto, co-diretto e interpretato da Anna Elena Pepe che, insieme a noi di InfoEstetica, ha voluto parlare di cinema, violenza ma anche bellezza.

Anna Elena, Miss Agata e Venezia, che momento stai vivendo?

È un bellissimo momento perché questo corto è inserito in un bellissimo percorso. Miss Agata ha iniziato a girare a gennaio: siamo partiti con il Clermont-Ferrand Short Film Festival poi sia andati a Los Angeles al Chinese Theatre poi a New York all’interno del Queens Film Festival, dove eravamo l’unico corto internazionale su una tematica come l’integrazione. Poi ho fatto molti festival italiani e a Venezia arriviamo al culmine di questa parabola passata anche da Cannes.

Un grande lavoro con grandi soddisfazioni.

Sì e sono orgogliosa che a Venezia il corto abbia vinto il premio per la sceneggiatura, perché questo corto tocca temi importanti come il disturbo post traumatico e l’integrazione ma con toni da dramedy.

La narrazione di Miss Agata è particolare: non è usuale trattare un tema come la violenza sulle donne attraverso la chiave del comedy drama. Perché questa scelta?

Io ho fatto molta ricerca prima di iniziare e vedevo che le vittime di trauma, molte, si prendevano con ironia. Tendevano a esorcizzare ciò che gli era successo e quindi sia per inclinazione - io scrivo dramedy - sia dalle interviste, nelle quali ho compreso la loro volontà che le loro storie fossero raccontate in questo modo, ho pensato che Agata potesse essere quel personaggio lì. In più lo humor aiuta perché come spettatore ti rilassi e non ti aspetti quello che arriva che poi, però, arriva e colpisce in profondità.

Perché parli della protagonista Agata come di una "vittima imperfetta"?

Lo è perché fa delle cavolate, non ultima quella di non riuscire a vedere Nabil per quel che è, rischiando così di compromettere l’unico rapporto positivo che ha nella sua vita. C’è sempre il problema che la vittima viene vista in un certo modo, cioè perfetta, quella che subisce e basta. Quindi l’imperfezione sta nel suo tentativo di reagire facendo, però, una cavolata.

A Venezia arriva dunque un messaggio forte in un momento delicato?

Io spero che si cominci a parlare di più della sindrome da stress post traumatico. Perché non è che se rimuovi il perpetratore non c’è più il problema, queste donne non riescono a rifarsi una vita. E questa è la parte che fa meno notizia. Quindi mi piacerebbe che si arrivasse, ovviamente, a prevenire la violenza e a proteggere le vittime, ma anche che ci fosse più dialogo sul come accompagnare un’ex vittima di violenza verso il superamento del trauma.

Qualche anno fa in una intervista hai detto: “I personaggi femminili nei film sono ancora troppo spesso una proiezione di una visione maschile della realtà”. Era il 2018, è ancora così?

Fortunatamente, nel frattempo, si è dato spazio a molte più creatrici femminili quindi questo ha portato a una apertura. A me ha colpito che qualche critico maschile, che ha visto il mio film, ha puntato l’attenzione sul fatto che Agata è più grande di Nabil. Ma la differenza di età è pensata così. Ho molte amiche coetanee – 35enni – che hanno avuto storie con stranieri molto più giovani di loro, che sono più maturi degli italiani della stessa età, perché hanno un bagaglio culturale e di esperienze diverso. Però il sessantenne che vede il corto si aspetta di vedere due venticinquenni, che fanno i teenager innamorati. La storia della 35enne in crisi, che non è ancora madre, è più rara da trovare e il pubblico di un certo tipo la trova strana. Invece, la soddisfazione più grande è avere fatto ridere e piangere molte donne e questo mi fa capire di avere centrato l’obiettivo e raccontato una storia che le rappresenta.

L'immagine del corpo femminile, ciò che si mostra, ciò che richiama: c'è ancora pregiudizio nel cinema?

Dall’America è arrivata una ventata di freschezza su fisicità e facce diverse. C’è stata molta lotta sulla diversity e questo ha iniziato a cambiare le cose. Quando punti molto sulle attrici latine, sulle african-american, ti apri a fisicità diverse da quella caucasica e classica e questo sicuramente ha aiutato a cambiare le cose. Però devo dire che se tu guardi film italiani di una volta, la classica commedia all’italiana per intenderci, comunque si basava sulla particolarità del volto non erano bellezze canoniche, anche se poi c’era la star bellissima. Negli anni con la tv si è andati verso una omologazione che oggi invece sta nuovamente cambiando. A me piace la realtà, voglio raccontare di persone belle nella loro normalità, quella di tutti i giorni.

Cinema e bellezza, un binomio particolare?

Sono un’esteta. A me piace il bello. La cura dei dettagli, l’attenzione ai particolari anche nel film c’è una cura particolare della scenografia. Mi accorgo che mi piacciono le cose rifinite, ma l’attenzione al particolare e al bello non mi distoglie dai miei obiettivi. Questo significa che nei provini non cerco necessariamente l’attore o l’attrice bella, anzi.

Per Anna Elena Pepe cos’è la bellezza?

È una sorta di pace con sé stessi. Un percorso interiore che ti porta a sentirti risolta. Se tu arrivi a quel punto sei bella perché sei a tuo agio, ti senti bene, sei sicura di te. Ma è un lavoro soprattutto interiore. Detto questo anche l’esteriorità conta. Se io mi sento giù vado a farmi una piega, la manicure, questo mi fa sentire meglio. Oggi essere belle è un discorso di confident, puoi essere bellissima sentendoti bella dentro. Qualsiasi persona può essere la versione migliore di sé senza perdere di vista che l’unicità è un punto chiave. Valorizzare i nostri punti di forza è molto importante.